Un gigante fatto di briciole

di Pacifico

Samuele è matto.
Ha perso la testa.
Boh, e chi lo capisce.

Questo ho pensato, io come molti che lo seguivano, che lo ammirano e gli vogliono bene, e proprio per questo si preoccupavano. Come si capisce se uno si è perso o se sta semplicemente cercando, e la strada è solo lunga e senza indicazioni?
Lui non aveva la risposta ma mai avrebbe mollato.
Per questo disco è stato a lungo a Milano, con Silvio Masanotti, poi a Parma, con Pietro Cantarelli, e infine a Bologna, solo per settimane, con Marcello, gatto riflessivo.
Sono andato a trovarlo qualche volta. Ho sentito prima le musiche, spesso parte da lì, e già questo lo rende diverso da buona parte dei cantautori. Cura tantissimo i suoni e gli arrangiamenti, canta in finto inglese la linea melodica e i pezzi si sistemano in uno strano territorio, questo passaggio mi sembra…Peter Gabriel?! Ma qui…non sembra Billy Joel??
E cosa c’entrano??

Qui, in questa fase difficoltosa, in cui un artista che scrive testi fenomenali ha costruito per mesi le musiche ed ora deve mettere le parole giuste, e si è stretto ai polsi le manette della inflessibile polizia che perseguita gli autori, La Metrica. Qui è secondo me il segreto del suo lavoro, della meraviglia che suscita questo disco, come del resto molte delle sue canzoni.
Samuele non ha un foglio pieno di frasi che scattano come congegni oliati, e sazio e rassicurato dal testo cerca di metterci sopra una musica. Succede a molti, anche a me naturalmente, e lì il cantato alla fine diventa un parlato melodizzato, inevitabilmente cantilenante. Samuele canta, benissimo tra l’altro, uno dei cantanti più bravi e sicuri. La musica si apre, si stacca da terra, vola via. È un serpentone di parole che striscia lungo le strofe – diciamo che le strofe sono le strade – raccoglie tutte le sdrucciole e le parole tronche che non sapevano di essere tronche. Ma in fondo alla strofa, alla strada, il serpentone si alza e vola via, i ritornelli di Bersani sono degli aquiloni.
È questa sorpresa, questo gioco di prestigio che riesce a pochi che rende il suo lavoro così emozionante.

A Bologna aveva i capelli lunghi davanti agli occhi, il gatto sulle spalle o sullo schienale della sedia, lui e il computer. Pativa per i testi. Non aveva un quaderno, tirava fuori pezzettini, fogliettini, cartine di sigarette scarabocchiate.
Briciole.
E le metteva insieme, di dieci post-it ne cancellava nove, uno lo attaccava sul tavolo. Per una frase potevano passare tre giorni. Poi mezzo ritornello in un giorno. Poi silenzio per una settimana.
Mi è sembrato perduto, e tutti volevano tirasse via, ma si, ma va bene, è bellissimo così. Lui niente, non era convinto. Aveva un metodo, non avevo capito io. Era come se avesse avuto in dono un campo difficile da coltivare, dove non valevano le regole e l’esperienza degli altri. E chi passava di là vedeva il campo piatto, arido, senza raccolto e senza cambiamenti. È matto, ma che fa?
E invece una mattina il campo era improvvisamente fiorito, e non si trovano fiori così belli da nessun’altra parte.
Ha messo insieme le sue briciole, e ha tirato in piedi questo disco, un Gigante fatto di briciole che ora se ne va in giro leggero tra stanze e cellulari di chi vorrà, di chi avrà ancora coraggio e voglia di avere un Gigante per casa.

Odio le citazioni Samuele, ma passamene una:

E io non ci sto più
E i pazzi siete voi

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